Oggi vi parlo del perché il codice deontologico vieta agli psicologi di intervenire, fare diagnosi o fare terapia ai propri familiari, parenti o amici stretti. Può sembrare una stupidaggine ma è una cosa molto importante e, per esperienza personale, vi voglio dire che è una questione che va compresa e rispettata perché può portare molto oltre lo scambio di due o tre battute, se una diagnosi la si può chiamare battuta. Cominciamo andando a vedere cosa recita l'articolo 28, perché io sono sempre dell'idea che sapere è meglio di non sapere:
L'articolo riguarda il divieto di commistione tra il ruolo professionale e la vita privata, sottolineando che non devono esserci interferenze tra i due ambiti che possano danneggiare l'attività professionale o l'immagine della professione stessa. Inoltre, l'articolo specifica che è vietato instaurare relazioni significative di natura personale, in particolare affettivo-sentimentale o sessuale, con pazienti durante il rapporto professionale, e che è altrettanto grave instaurare tali relazioni nel corso del rapporto professionale.
Articolo 28 del codice deontologico degli psicologi italiani recita:
Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento (danno) all’immagine sociale della professione. Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.
Che vuol dire?
Il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, mira a proteggere il paziente, garantire l'efficacia del trattamento e a difendere la categoria stessa degli psicologi.
Il Codice afferma che è una violazione deontologica effettuare interventi diagnostici o terapeutici su persone con cui si intrattengono relazioni significative.
Questa limitazione si basa sul principio che la relazione personale, soprattutto se affettivo-sentimentale, può compromettere la neutralità, l'obiettività e la capacità del professionista di fornire un sostegno efficace.
Ma perché?
La relazione pregressa potrebbe influenzare la percezione del professionista, portando a giudizi o pregiudizi che inficiano la diagnosi e il trattamento.
La commistione tra il ruolo professionale e quello personale può creare confusione e difficoltà nella gestione della relazione terapeutica.
Potrebbe essere più difficile per lo psicologo mantenere la riservatezza con un familiare o amico, compromettendo la fiducia del paziente.
La dinamica relazionale preesistente potrebbe portare a tentativi di manipolazione o influenza sulla terapia da parte del paziente o dello psicologo parente.
Lo psicologo può fornire consulenza e sostegno a familiari e amici, ma non può intraprendere una vera e propria terapia o formulare diagnosi.
La consulenza deve essere limitata a fornire informazioni, orientamento e supporto, senza entrare nel merito della diagnosi o del trattamento.
È vietato sfruttare la posizione professionale per ottenere vantaggi personali, sia patrimoniali che non patrimoniali
La consulenza deve essere una volta, solo con il familiare che eventualmente chiede aiuto, non condivisa con altri amici o parenti.
Ma quanto è forte la tentazione per uno psicologo, o per un parente, che sente di dover salvare tutti sempre e comunque, quanto è forte per una persona che pensa di avere un parente malato, consultarsi con fratelli, cugini, amici che magari anche sono di un qualsiasi settore medico, per cercare di confermare la propria teoria, prima di esporla al familiare che, secondo lo psicologo, lo riguarda?
Quanto è forte la tentazione di giustificare questo atteggiamento con un vittimismo che diventa "io volevo solo aiutare, ero in pensiero per lui/lei..."
Quanto è grave il diffondersi di queste chiacchiere tra amici e parenti se fosse vero? E se non fosse vero? Quanto è difficile vivere per una persona sulla quale è stato gettato il fango del giudizio, pregiudizio, del giudizio sbagliato, quindi falso?
Chi subisce queste vessazioni, perde la fiducia nel mondo, nei parenti, nella famiglia, nelle istituzioni e non vive più, non si cura più, e se poi tutto questo riguarda anche i figli, allora si che anche loro sono in difficoltà, ma per colpa di chi?
Di chi ha sparso la voce?
Di chi ha fatto finta di niente?
O di chi si è visto trattare come interdetto da medici o parenti e senza una ragione reale?
Io sono filosofo nell'animo e non amo la psicologia, quello che osservo è che spesso le leggi ci sono (come l'articolo 28 del codice deontologico degli psicologi italiani), vanno solo seguite.
Ma come seguire le leggi se non si è in grado di comunicare con chi ci/si ama? O peggio, se non si è in grado di amare e quindi rispettare le altre persone? E perché poi? Nessuno lo sa mai, perché di solito chi lancia questo sasso nasconde la mano, insabbia la testa e sparisce.
Ricordate:
amate o odiate i vostri parenti e i vostri amici ma non li aiutarli necessariamente, non li aiutate se loro non vogliono, parlateci, amateli e parlateci ancora guardandoli negli occhi, ma non li uccidete portando loro nella vostra follia.
Buona estate
Silvia